N.4 – Anno 1 – Novembre 2017
Guidare il cambiamento nella gestione del paziente con encefalopatia epatica
Antonio Craxì, Mauro Bernardi, Sara Montagnese, Antonio Gasbarrini, Oliviero Riggio
U.O.C. Gastroenterologia ed Epatologia, Di.Bi.M.I.S., Università degli Studi di Palermo
Dipartmento di Scienze Mediche e Chirurgiche, Alma Mater Studiorum Università di Bologna
Dipartimento di Medicina, DIMED, Università degli Studi di Padova
Dipartimento di Medicina Interna, Gastroenterologia e Malattie del Fegato
Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli, Roma
Dipartimento di Medicina Clinica, Divisione di Gastroenterologia, “Sapienza” Università di Roma
Paziente di 29 anni affetta da epilessia parziale con secondaria generalizzazione sin dall’età di 9 anni, con episodi caratterizzati da arresto psicomotorio associato ad automatismi prevalentemente buccali/masticatori. In anamnesi era riportato un singolo episodio convulsivo febbrile in età infantile. Il resto dell’anamne si era muta per significatività cliniche. Nel corso della vita la paziente aveva presentato anche alcuni episodi generalizzati, preceduti da ottundimento del sensorio e malessere generalizzato con difficoltà nella comprensione, seguiti da perdita di coscienza con caduta a terra e atteggiamento dapprima tonico e successivamente clonico dei 4 arti. Gli esami strumentali effettuati nel corso del tempo, sono stati RM encefalo, risultata negativa, ed EEG mostrante anomalie lente e parossistiche intercritiche fronto-temporali destre, con scarsa tendenza alla diffusione. Giunta alla nostra osservazione, la paziente assumeva oxcarbazepina fino al dosaggio di 1200 mg/die con parziale controllo degli episodi critici. In particolare la paziente riferiva la comparsa, negli ultimi 3 mesi, di un cluster di episodi parziali prevalentemente catameniali associati ad alcuni episodi generalizzati (circa 1 al mese). La paziente riferiva inoltre una lunga storia clinica di emicrania, con le caratteristiche classiche di dolore gravativo prevalentemente frontale ed orbicolare, foto e fonofobia, risposta alla somministrazione di farmaci anti-infiammatori non steroidei. Nello specifico, la paziente riferiva la comparsa di circa 8-10 episodi/mese, in assenza di chiari eventi scatenanti. Per una migliore valutazione del quadro clinico, la paziente arrivava alla visita di controllo con un diario riportante gli episodi critici epilettici e gli episodi emicranici (Fig. 1). Al fine di migliorare il controllo delle crisi epilettiche è stata impostata una terapia con perampanel, dapprima al dosaggio di 2 mg/die successivamente incrementato al dosaggio di 4 mg/die. Tre mesi dopo, alla rivalutazione clinica, dalle informazioni registrate nel diario clinico si sono apprezzate la scomparsa degli episodi critici generalizzati ma la persistenza di circa 2 episodi parziali al mese, sempre a ridosso del ciclo mestruale. Da notare, la netta riduzione degli episodi emicranici che, nell’arco dei mesi, si sono presentati solamente in 3 occasioni. In considerazione dell’assenza di effetti indesiderati e del miglioramento degli episodi epilettici, è stato impostato un incremento del dosaggio di perampanel fino a 6 mg/die.
Introduzione
Scopo di questo documento è discutere lo stato dell’arte circa l’EE, analizzando in dettaglio gli aspetti clinici di eziologia, diagnosi e trattamento, senza trascurare l’impatto socio-economico della patologia. Il documento potrà inoltre essere utile per ampliare la conoscenza dell’EE e arrivare all’obiettivo finale di una migliore gestione del paziente e delle risorse sull’intero territorio nazionale. Le considerazioni riportate hanno avuto inizio a partire dalle Linee Guida Pratiche EASL/AASLD (2014) che standardizzano i criteri di definizione e di nomenclatura, i criteri per la diagnosi e la diagnosi differenziale e gli schemi di trattamento più riconosciuti.
Gestione dell’EE in Italia
L’esistenza di un documento di riferimento accreditato per la gestione dell’EE, non è garanzia del fatto che lo stesso sia conosciuto su ampia scala dalla comunità medica o che le raccomandazioni siano applicate nella pratica clinica. Una recente survey ha scattato una fotografia accurata della gestione dell’EE in Italia, valutando l’accesso, la partecipazione e l’aderenza alle linee guida in un campione di 295 centri registrati in AIFA per la terapia delle epatiti croniche, distribuiti sull’intero territorio nazionale. I responsabili delle 201 strutture che hanno preso parte alla survey hanno risposto a 20 domande, nella maggior parte dei casi a risposta chiusa (90%) e i pazienti afferenti ai centri erano rappresentati da 49.234 persone con cirrosi epatica ad eziologia legata prevalentemente ad HCV (66%) e alcol (27%).

Questi in sintesi i principali risultati:
- Epidemiologia e linee guida. Il 42% dei pazienti con cirrosi epatica aveva avuto almeno un episodio di EE, un numero che, considerate le possibili differenze nei criteri utilizzati dai centri per definire l’episodio di EE, lascia qualche spazio al dubbio. Ad ogni modo il dato, seppur approssimato, fornisce una prima dimensione di un problema, percepito come significativo per i pazienti con cirrosi dalla maggior parte degli intervistati (96%), che però solo in percentuale pari al 30% hanno avuto occasione di accedere alle linee guida sull’EE. Anche nella pratica clinica si osservano comportamenti perfettamente in linea con le raccomandazioni e altri che invece dimostrano una scarsa aderenza alle linee guida.
- Fattori precipitanti. In perfetto accordo con le raccomandazioni, il 99% dei partecipanti ricerca fattori precipitanti dell’EE, riscontrando più comunemente infezioni (30%), eccesso di diuretici/disidratazione (27%), stipsi (20%) e sanguinamento digestivo (15%). Come sottolineato dalle linee guida e affermato dal 93% dei partecipanti, gli stessi fattori precipitanti tendono a riproporsi nello stesso paziente. Resta attiva, in 8 medici su 10 (81%), la pratica di effettuare un clisma evacuativo come primo intervento in un paziente con EE, indicazione non contenuta nelle linee guida e potenzialmente inappropriata dal punto di vista del rischio di disidratazione.
- Diagnosi e monitoraggio. Il dosaggio dell’ammoniemia venosa, raccomandato dalle linee guida, è utilizzato da 3 medici su 4 (74%) nella diagnosi differenziale, ma anche dal 64% dei medici in fase di monitoraggio, quando la sensibilità dell’esame non è particolarmente elevata. Solo in un quinto dei casi (21%) si mette in atto un percorso di diagnosi differenziale nel paziente con cirrosi ed EE persistente o refrattaria al trattamento e si indica scarsa attenzione a tale possibilità. Inoltre, una percentuale non trascurabile di pazienti (21%) non viene valutata in modo sistematico tramite imaging per la ricerca di un eventuale shunt porto-sistemico: a giustificazione del dato si potrebbe addurre la difficoltà per alcuni centri di accedere a tecniche di imaging adeguate.
- Misure di contenimento. Due intervistati su 3 (66%) forniscono spontaneamente o su richiesta consigli sulla guida di autoveicoli a pazienti con EE conclamata severa o ricorrente. Per quanto riguarda la dieta, in particolare la sostituzione delle proteine animali con proteine vegetali e latto-casearie, nel paziente con cirrosi ed EE, il 44% degli intervistati ritiene che ci siano dati di letteratura solidi per sostenere tale sostituzione. È difficile assumere posizioni nette sul tema, ma senza dubbio il coinvolgimento dei nutrizionisti sarebbe opportuno per meglio definire quali sostituzioni debbano essere effettuate e con quali modalità.
- Gestione dell’EE. L’85% dei medici dichiara di utilizzare disaccaridi non assorbibili. Percentuali simili (86%) emergono per quanto riguarda l’uso di antibiotici non assorbibili, che nell’80% dei casi sono rappresentati da rifaximina. Gli aminoacidi ramificati vengono utilizzati dal 71% degli intervistati, anche se i dati internazionali da studi randomizzati e controllati non lo suggeriscono e la somministrazione endovenosa avviene in genere in parallelo a quella di soluzione glucosata (79%). Di fronte a questo scenario, gli esperti concordano sulla necessità di stimolare la conoscenza delle Linee Guida 2014, almeno nei centri con un interesse clinico diretto nella terapia dei pazienti con problemi epatici; di sottolineare la posizione delle linee guida in relazione al trattamento dei precipitanti di un episodio overt di EE e di mettere in evidenza l’importanza di fornire consigli cauti e circostanziati su dieta e guida di autoveicoli.
Epidemiologia e aspetti socio-economici dell’EE
La cirrosi è una sorta di crocevia anatomo-patologico verso il quale convergono le epatopatie croniche evolutive. La prima fase di malattia, definita cirrosi compensata, è asintomatica. La comparsa di manifestazioni cliniche, che comprendono l’EE, marca la fase di scompenso, spesso aggravata e accelerata dallo sviluppo di infezioni batteriche. Il complesso di alterazioni neuropsichiatriche tipiche dell’EE, che comprende anormalità a carico dei domini cognitivo, affettivo-emozionale, del comportamento e della funzione neuromuscolare, la rende una delle complicanze più devastanti alle quali possono andare incontro i pazienti con epatopatia avanzata. Dovendo discutere di EE è importante ricordarne, anche se sommariamente, la nomenclatura (Tab. 1). L’EE che si sviluppa nei pazienti portatori di epatopatia cronica è definita di tipo C, essendo il tipo A relativo al contesto dell’epatite fulminante e il tipo B a quello correlato a shunt porto-sistemici estesi, anche in assenza di epatopatia. L’intensità dell’EE viene stratificata in gradi; l’EE minima (EEM) e il grado 1 dell’EE clinicamente manifesta vengono considerate subcliniche (covert), mentre l’EE conclamata (EEC) di grado 2-4, facilmente identificabile, viene definita overt.

Uno studio di coorte condotto su pazienti con cirrosi ha rilevato un’incidenza di EE durante un periodo di osservazione mediano di 51 mesi pari all’8% il che la pone, tra le complicanze della cirrosi, al secondo posto dopo l’ascite4. La prevalenza di EEC al momento della diagnosi si attesta sul 10-14% dei pazienti con cirrosi, e su percentuali superiori (16-21%) nei casi di cirrosi scompensata. Durante il decorso della malattia almeno un terzo (30-40%) dei pazienti sviluppa una o più volte EEC e nei portatori di TIPS (Transjugular Intrahepatic Porto-systemic Shunt) la prevalenza è pari al 10-50%. La prevalenza di EEM riportata dai diversi studi varia notevolmente (20-80%), a indicare, forse, che questa condizione è spesso trascurata o ricercata in modo non appropriato, pur avendo conseguenze importanti per il paziente. Infatti, anche se non clinicamente evidente, l’EEM ha ricadute cliniche rilevanti, quali la riduzione della capacità di guida e della qualità di vita. I fattori che influenzano la probabilità di sviluppare EEC sono molteplici. Uno dei più potenti predittori è rappresentato da un precedente episodio di EE, che raddoppia l’odds ratio di EEC5, mentre nei pazienti portatori di TIPS l’odds-ratio triplica in presenza di un episodio di EE verificatosi prima dell’inserimento dello shunt6. Altri fattori predittivi di EEC sono rappresentati dall’utilizzo di inibitori di pompa protonica (PPI) e di diuretici. La comparsa di EE, sia clinicamente manifesta sia sub- clinica, influenza negativamente la prognosi, essendo associata a una maggiore mortalità. L’EE ha, inoltre, un impatto economico rilevante, essendo causa di frequenti ricoveri ospedalieri11 che comportano un costo assai elevato per il Sistema Sanitario Nazionale. Uno studio italiano condotto su una coorte di 380 pazienti ricoverati per EEC12 e con fragilità elevata in base all’indice di Charlson, ha mostrato che il 42% dei pazienti è andato incontro a un nuovo ricovero entro circa 3 mesi. L’impatto economico dei pazienti che sviluppano un nuovo episodio di EE che richiede il ricovero è assai più elevato di quello dei pazienti che non presentano una recidiva. L’incremento dei costi non è tanto legato al consumo di farmaci o alle procedure effettuate durante il ricovero, quanto al costo dell’ospedalizzazione, che si dimostra tanto più elevato quanto più si riduce l’età del paziente. Dal punto di vista economico, quindi, l’EE ha un grande impatto e, di conseguenza, è importante disporre di trattamenti in grado di prevenirne la comparsa o la recidiva. Un recente studio italiano condotto su pazienti con EEC ha analizzato i costi di un approccio terapeutico basato sulla somministrazione di rifaximina, dimostrando che, pur con un aumento della spesa per il farmaco, l’onere economico complessivo si riduce (Tab. 2).
Utilizzo dei test psicometrici nell’EE
Il 94% dei medici italiani ha dichiarato che utilizzerebbe regolarmente, se fossero disponibili, eventuali strumenti pratici e veloci per la diagnosi di EE epatica minima o lieve. Di fatto però i test psicometrici non vengono molto utilizzati nella pratica clinica per una serie di motivazioni che vanno dalla necessità di poter dedicare a tali test tempo e personale esperto, fino a ragioni di ordine più profondo come la scarsa chiarezza sulla definizione dell’EEM o l’idea che l’EEM sia una entità a sé stante, scollegata dall’EEC. Per quanto riguarda la definizione di EEM, è fondamentale ricordare che le Linee Guida 2014 sottolineano che l’EE è causata da insufficienza epatica e/o shunt, condizioni che devono quindi essere presenti per poter sospettare la presenza di EEM. Nella pratica clinica si osserva spesso la diagnosi di EEM in contesti di patologia che in realtà non hanno nulla a che vedere con disturbi epatici come il Mild Cognitive Impairment, l’ipotiroidismo, la malnutrizione, lo sbilancio elettrolitico, la sepsi e anche effetti collaterali di farmaci come gli oppiacei o le benzodiazepine ai quali i cirrotici sono più sensibili. Nell’ambito della diagnosi differenziale – complicata
dalla eventuale presenza di comorbilità come demenza vascolare, impiego di farmaci psicoattivi, recente abuso di alcol, malnutrizione, sepsi o combinazione di più fattori – è fondamentale tenere conto del profilo neurocognitivo del paziente con EEM che presenta alcune specificità. Un test adeguato dovrebbe valutare domini cognitivi che fanno parte di questo profilo: vigilanza, attenzione, funzione esecutiva (che rispecchia molto bene anche la capacità di guida), velocità psicomotoria. Risultano importanti, ma in misura minore, inibizione e memoria di lavoro e si potrebbe pensare anche a inserire nelle batterie un test di memoria, allo scopo di dimostrare che non è alterato. Di fronte all’attuale livello di utilizzo dei test psicometrici, potrebbe essere utile inserire nella pratica clinica una agenda semplificata, fatta di pochi e semplici passi.
- Chiarire il raggio di azione. Il settore di interesse è quello che le nuove linee guida chiamano covert (Tab. 1).
- Caratterizzare l’EEM in base ai parametri suggeriti dalle linee guida per decorso temporale (episodica, ricorrente, persistente) e per capire se l’episodio è spontaneo o precipitato, prestando attenzione anche all’identificazione degli eventuali precipitanti.
- Misurare indici di insufficienza epatica, valutando anche la presenza di shunt, misurare l’ammoniemia (in base alle linee guida non si può parlare di EE senza alterazioni dell’ammoniemia), effettuare test di laboratorio per la diagnosi differenziale (emocromo completo, funzionalità epatica e renale, elettroliti, ammoniemia, TSH, CPS, glicemia, vitamina B12 e analisi delle urine).
- Introdurre test specifici quali batterie semplificate, App per smartphone o dell’EEG leggero. Questo potrebbe risultare complesso in molte realtà cliniche. Forse la soluzione è l’Animal Naming Test16, un test per il richiamo dei nomi degli animali, molto rapido (60 secondi) ma pertinente per profilo cognitivo nei casi di EEM in quanto valuta domini quali la fluenza semantica, la memoria di lavoro. Inoltre, si tratta di un test che non richiede strumenti sofisticati dal momento che consiste nel chiedere al paziente di nominare gli animali che gli vengono in mente nell’arco di un minuto.
Encefalopatia epatica minima
Alla base della patogenesi dell’EEM si pone una miscellanea di condizioni. Le moderne tecniche di indagine stanno cambiando radicalmente le conoscenze nel settore e dimostrando l’importanza dell’intestino e della comunità microbica in esso presente sia per l’identificazione dei meccanismi patogenetici che di nuove opzioni terapeutiche.
Patogenesi
Per oltre un secolo l’ammonio è stato considerato il principale fattore metabolico alla base della patogenesi dell’EEM, ma in tempi recenti tale concetto è stato scardinato dagli studi sull’asse intestino-fegato-cervello e sulla barriera intestinale che oggi viene analizzata sia dal punto di vista anatomico che microbiologico (biotic surface). Merito anche delle moderne tecniche di microbiologia molecolare che hanno permesso di identificare in maggiore dettaglio le comunità microbiche intestinali, un sistema estremamente complesso, in continuo dialogo con l’organismo e dotato di un equilibrio molto fragile di fronte a determinate condizioni come la progressionedella malattia. La componente variabile del nostro genoma (il microbiota) può essere pesantemente alterata in presenza di una barriera intestinale danneggiata come quella del paziente cirrotico, con iper-permeabilità e disbiosi, condizioni ideali per la produzione di tossine che non possono essere metabolizzate. È importante comprendere che nell’EE come in altre patologie non si parla di una specie microbica dominante, ma piuttosto di una disproporzione tra specie batteriche, ovvero di una distruzione dell’equilibrio originale che può essere talmente forte da causare le cosiddette sindromi enteropatogenetiche.

L’intestino di un paziente cirrotico va incontro a una enorme quantità di stress – dall’ipertensione portale agli stress derivati da PPI e altri farmaci – potenzialmente in grado di alterare la resistenza o la resilienza del microbiota, ovvero, rispettivamente, la capacità di un microbiota di rimanere inalterato nonostante una serie di stress e la quantità di stress che un sistema può tollerare prima di spostare la propria omeostasi verso un nuovo equilibrio. Con il progredire della malattia, il microbiota tende ad adattarsi a un nuovo stato che non può più essere riportato allo stato originale avendo perso la propria capacità di resistenza. Sebbene le tecniche di microbiologia molecolare siano spesso troppo complesse e costose per poter essere applicate nella routine clinica e diagnostica, sono attualmente disponibili alcuni test commerciali per valutare la composizione della popolazione microbica che sta assumendo un ruolo sempre più importante nella patogenesi dell’EEM legata anche allo stato infiammatorio intesti-
nale.Diagnosi, impatto clinico e significato prognostico. Nei soggetti con EEM non sono presenti manifestazioni cliniche evidenti e questo determina dati piuttosto discordanti, con differenze riscontrate anche a causa dei diversi test utilizzati e della disponibilità di test e attrezzature complesse nei singoli centri. L’EEM ha comunque un impatto notevole sui pazienti – con riduzioni della qualità di vita, della capacità lavorativa e di guida e aumento del rischio di cadute – e sul sistema sanitario in termini di costi legati all’ospedalizzazione. Dal punto di vista prognostico, numerosi studi hanno dimostrato che la presenza di EEM correla con il grado di encefalopatia, con il grado di cirrosi e con altri parametri di progressione di malattia.
Trattamento
Le nuove conoscenze relative al microbiota possono portare in ultima analisi a una modifica dell’approccio terapeutico in un contesto nel quale le linee guida non prevedono un trattamento di routine raccomandato data la varietà dei test utilizzati, degli end-point e della durata degli studi ed esistono ancora alcune barriere da superare quali la scarsa consapevolezza dei medici dell’importanza clinica dell’EEM, la mancanza di test e tool diagnostici semplici ed efficaci e prove certe che i trattamenti possono realmente migliorare durata e qualità di vita. Le opzioni terapeutiche oggi disponibili per l’EEM sono rivolte in maniera più o meno diretta alla modulazione della popolazione e dell’ecosistema intestinale (Tab. 3) e sono le stesse utilizzate per l’EEC30. Oltre ad essere efficaci, i trattamenti di elezione devono mostrare un profilo costo-beneficio favorevole e di conseguenza spesso si tende a utilizzare l’opzione farmacologica in seconda battuta, puntando innanzitutto su modifiche della dieta e dello stile di vita. Rientrano nella dieta il lattulosio, un prebiotico di riconosciuta importanza nel trattamento dei pazienti con EEM31, ma anche zinco e antiossidanti utili per ristabilire l’equilibrio del microbioma32. In contesti diversi dall’EEM si utilizzano anche altri prebiotici come l’inulina che stimola la crescita di batteri in grado di produrre IL-10; non è escluso che in futuro ci saranno altri prebiotici indicati per l’EEM. Sui probiotici nel trattamento dell’EEM la letteratura è ancora troppo scarsa per poter giungere a raccomandazioni di trattamento, così come succede per altre opzioni di trattamento non farmacologiche. Nell’ambito dei trattamenti antibiotici, rifaximina riveste oggi un ruolo da protagonista anche grazie alle sue caratteristiche peculiari di antibiotico non-assorbibile derivato dal macrolide rifamicina, con un effetto antimicrobico in vitro contro batteri Gram positivi, Gram aerobi e anaerobi. A differenza di altri antibiotici, rifaximina permette la sovracrescita di batteri come lactobacilli o bifidobatteri, in alcuni casi dotti di azione antinfiammatoria. Per questa sua capacità di ridurre la crescita di alcuni enterobatteri e di aumentare quella di altri, si tende a parlare di “eubiotico” piuttosto che di antibiotico. Gli studi disponibili mostrano come rifaximina sia in grado di ridurre l’EEM e migliorare la qualità di vita nei pazienti, mentre alcune valutazioni di driving test hanno dimostrato che rifaximina è in grado di migliorare notevolmente le capacità di guida in pazienti con EEM riducendo il numero degli incidenti stradali e di conseguenza i costi. Il trattamento con rifaximina è inoltre in grado di migliorare anche alcune caratteristiche neurologiche come il comportamento, la memoria e il controllo inibitorio. Alla base di questi risultati si pone la capacità di rifaximina di modulare la funzione metabolica delle specie microbiche intestinali con l’aggiunta di un effetto diretto su alcune citochine37,38. Sono attualmente in corso studi per valutare il confronto tra rifaximina vs rifaximina+lattulosio. La durata della terapia in pazienti con EEM non è stata definita in termini assoluti e di conseguenza un trattamento antibiotico pone il problema del possibile sviluppo di antibiotico-resistenza. In questo contesto, rifaximina potrebbe rivelarsi fondamentale dal momento che non determina antibiotico-resistenza attraverso plasmidi che possono trasferirsi da una specie batterica a un’altra. Un punto di forza che si aggiunge all’efficacia prolungata nel tempo.
Encefalopatia epatica conclamata
L’EEC è al centro dell’attenzione dei clinici in quanto rappresenta la seconda causa di scompenso, quindi una complicanza frequente in pazienti con cirrosi. Recentemente hanno assunto particolare importanza anche le conseguenze dell’EEC, la più importante delle quali è rappresentata dall’aumento della mortalità dei pazienti che si presenta indipendentemente dalla presenza di insufficienza epatica o di altri organi10 e dal Model for
End-stage Liver Disease (MELD)41. Inoltre, diversi studi hanno dimostrato che dopo un episodio di EE è molto difficile, se non impossibile, recuperare completamente le funzioni neurocognitive danneggiate dall’evento stesso42-46, con danni che permangono anche dopo l’eventuale trapianto.
Prevenzione
La prevenzione dell’EE è fondamentale per diverse ragioni: evitare la seconda più frequente causa di scompenso e il declino cognitivo/danni cerebrali che permangono dopo l’episodio, ridurre ricoveri e secondi ricoveri, ridurre i costi per la comunità e le famiglie ed eventualmente ridurre la mortalità, benché al momento non esistano studi sull’EE che abbiano avuto come end-point primario tale evento. In un’ottica di prevenzione è importante identificare i pazienti a rischio. Questi pazienti possono essere identificati in base a diversi fattori quali la presenza di almeno un precedente episodio di EE, la presenza di EEM o di shunt (spontaneo o iatrogeno). Gli approcci preventivi sono molto diversi (lattulosio, probiotici, glicerolo fenilbutirrato, rifaximina) e sono disponibili numerosi studi che ne dimostrano l’efficacia in genere sulla prevenzione di un secondo episodio e in un caso anche nel contesto di prevenzione primaria. Nella prevenzione farmacologica dell’EEC, rifaximina riveste un ruolo particolarmente importante. Uno studio randomizzato, controllato e in doppio cieco, condotto in pazienti con almeno due episodi di EE in 6 mesi, ha dimostrato che il trattamento con rifaximina con o senza lattulosio porta a una riduzione del tempo al primo episodio breakthrough di EE e anche del tempo alla prima ospedalizzazione legata a EE. Uno dei problemi legati alla profilassi riguarda la durata del trattamento che dovrebbe essere protratto per un lungo periodo. Studi condotti per periodi superiori ai 6 mesi (7 mesi e 2 anni) hanno dimostrato come con rifaximina gli effetti collaterali siano minori rispetto a quelli registrati con il placebo e come la remissione fosse mantenuta anche a lungo termine.
Trattamento
Nella gestione dei casi di EEC in forma episodica indotta da fattori precipitanti è fondamentale procedere al trattamento di tali fattori sui quali, come dimostrano anche studi italiani, l’attenzione è in genere piuttosto elevata. Uno studio svolto in pazienti con EEC al momento dell’arruolamento (non a scopo profilattico) ha dimostrato che la risoluzione dell’EE è maggiore con rifaximina+lattulosio che con il solo lattulosio60; nel gruppo senza rifaximina inoltre la sopravvivenza si riduce e le morti sono spesso dovute a infezioni. Anche nell’EEC ricorrente o cronica, la ricerca delle cause precipitanti ha un ruolo importante anche se non così determinante come nella forma episodica e ancora una volta si tratta di cause infettive, sebbene sia importante anche la ricerca di shunt.
Conclusioni
L’EE, nelle sue forme minima e conclamata, sono entità cliniche ben definite con un impatto notevole sulla qualità di vita del paziente e sui costi individuali e nazionali. Le linee guida sottolineano l’importanza della diagnosi e della profilassi, ma ad oggi sono molti i medici che non seguono le raccomandazioni o le seguono solo in parte. Serve un cambiamento di orizzonti, che porti a intervenire in maniera preventiva e non solo nel momento in cui si verifica una complicanza. Dal punto di vista della ricerca servono studi clinici con end-point legati alla qualità della vita e alla sopravvivenza dei pazienti ed è necessario puntare su approcci terapeutici che agiscano come Disease Modifying Drugs capaci di interferire non solo sul singolo evento, ma sull’intera sequenza della patologia. I risultati già oggi disponibili suggeriscono che rifaximina abbia le potenzialità per raggiungere tali obiettivi.
